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Ecco cosa so sui rimpianti

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Sono uscita da casa dei miei genitori tardi, avevo ventinove anni.
Per una con un carattere come il mio non è stato semplice conciliare la voglia di indipendenza con la responsabilità.
Arduo sentirsi pronti ad andare e restare invece tra le mura di una casa che di punto in bianco non percepisci più esclusivamente come tua. Dove, giustamente, ti viene chiesto l’orario di rientro, le preferenze su cosa mangiare, quanto, con chi.
In quei momenti, quando ti va stretta la routine fatta di attenzioni incondizionate dei tuoi genitori (che, quelle sì, un giorno, quando con un braccio terrai un figlio mentre con l’altro stirerai, dando da lontano un occhio all’arrosto sul fuoco, rimpiangerai) sai, senti che è il momento di allontanarsi.
Mio padre si è ammalato che avevo diciotto anni.
La malattia è durata quindici anni e oltre a farmi diventare in parte ciò che caratterialmente sono oggi, ha condizionato ogni aspetto della mia vita, i miei studi (ho fatto la Bocconi solo per compiacerlo), le mie scelte lavorative (ho prediletto un lavoro che mi desse innanzitutto la possibilità di tornare a casa presto per aiutare mia madre).
Mi sono chiesta mille volte se avessi perseguito prima i miei sogni adesso dove sarei.
Mi sono tormentata per il rimpianto, nonostante vivessi nella stessa casa, di non aver passato abbastanza tempo con lui. Per non essere entrata in quella stanza abbastanza frequentemente quando la situazione si è aggravata, per che so, leggergli un libro.
Quella stanza che aveva cambiato tutto nonostante fosse la stessa di quando ero bambina. Quella stanza che oggi è tornata a essere quella di prima ma che, come se ci fossero delle crepe stuccate nel muro, non sarà mai più la stessa.

«La verità è che quando ci si contorce lo stomaco per un rimpianto è perché non si considera il passato nella sua interezza. »

Se non abbiamo fatto gli attori forse è perché caratterialmente non eravamo predisposti al grosso numero di giudizi, umiliazioni e porte sbattute in faccia cui si è tenuti normalmente a sopportare per intraprendere quella carriera.
Se non siamo diventati chef forse è perché, perdonatemi il gioco di parole, non avevamo il fuoco sacro dei fornelli. Non abbastanza da rinunciare al resto.
Se non siamo diventati dottori perché siamo dovuti andare a lavorare per aiutare la famiglia, abbiamo reputato ci fosse qualcosa di più importante di cui occuparsi. E forse sì, saremmo stati degli ottimi medici ma quel futuro, evidentemente, non era stato scritto per noi.

Ho sentito per anni il rimpianto di non aver avuto il coraggio di staccarmi dalla famiglia e andare per la mia strada. Ma la verità è che non avrei potuto farlo.
Non io. Forse solo la proiezione della me con il senno di poi, ci sarebbe riuscita.
Ripensando al passato escludevo le cause che mi avevano portata a scegliere. Non ricordavo di non aver avuto la forza, nonostante mi spronassi, di entrare nella camera di mio padre tutte le volte che la mia testa mi diceva che avrei dovuto.
Accantonavo il dolore di quegli anni, la sensazione di non poter fare diversamente. O meglio, di non riuscire neanche a pensare di poter fare diversamente.
Ci sono volte che sento una vocina fastidiosa nella testa che mi dice che il mio è solo un modo per consolarmi.
Poi però invece di concentrarmi su ciò che non ho avuto, ripenso agli anni che abbiamo passato insieme. Anche quando quello schifo di malattia lo aveva debilitato e tramutato in un altro.
E ho così imparato a scusarmi;
a essere fiera per non aver lasciato che il mio rimpianto diventasse il rimorso di non esserci stata;
a fidarmi della me stessa del passato.
E a esserle grata.


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