L’ultima volta che sono uscita di casa era maggio 2012. Quasi tre anni fa. Mi sembra un secolo e, allo stesso tempo, un minuto fa.
Ho 37 anni e, nella mia vita ci sono poche certezze e molti ex: un ex lavoro, un ex fidanzato, una ex casa, una ex famiglia.
La prima volta che mi è successo ero in una piazza, a Milano. Ho pensato di avere un infarto. Ho chiamato un passante e l’ho afferrato per un braccio, mi ci sono appesa, come ci si potrebbe aggrappare per salvarsi da annegamento certo, a un ramo di un albero sulla sponda di un fiume in piena, nel quale si è scivolati senza ricordarsi come.
Ambulanza, corsa all’ospedale, codice rosso, una giornata tra corridoi che sanno di disinfettante e malattia ma nessuna evidenza di infarto o di qualsiasi traccia che potesse ricondurre a una motivazione scientifica di un malessere.
«“Torni a casa signorina, non ha nulla, sarà un po’ di stress”»
Ma io non lo sono. Non sono stanca, esaurita, stressata. Sono una persona normale. Con un lavoro che le piace, un fidanzato quasi marito con cui condivide la vita da dodici anni e una famiglia che la ama. Non ho nessun panico.
Certo, ci sono i problemi come per tutti. Perché i miei dovrebbero pesare di più? Sono una persona fortunata, tutto sommato. Mi basta camminare per strada per capire ciò che ho. Non sono mai stata fossilizzata su ciò che non possiedo o non posso avere.
Sono sempre stata una persona molto scettica, ho sempre pensato che la depressione venisse a dei ricchi figli di papà che non avevano altro problema che stare a lamentarsi della vita, invece di viverla.
Non a me. Non posso esserci caduta proprio io.
«Eppure.»
Eppure ho cominciato a chiedermi che senso abbia tutto questo. Questa aggressività del mondo. La sua fretta. Le ingiustizie.
Il tempo che scivola come gli orologi liquefatti nei quadri di Dalì.
Osservo le persone indaffarate a far scorrere quel tempo che a me va così stretto, a ingannarlo, a illudersi di avere un controllo.
Ho provato per anni a guarire da questa malattia invisibile, a dirmi che ce l’avrei fatta. Che sarebbe arrivato presto il giorno in cui sarei stata bene.
Ma tutte le volte che risprofondavo in quella familiare sensazione fangosa, la delusione per non essere riuscita a guarire, mi riportava in quel fiume dal quale non riuscivo a riemergere. Così il fango si è trascinato via il lavoro, il quasi marito, parte della mia famiglia che, stanca ed estenuata, mi osservava inerme non riuscire ad affrontare tutto questo.
Poi, dopo mesi di supporto psicologico, di dolorosi esami di coscienza, ho finalmente capito.
Ho compreso che la depressione ha radici profonde, infide, nascoste. Ha un inizio subdolo, del quale non afferriamo il principio, ma non ha una fine.
Chi si ammala di depressione, non “guarisce”. Combatte. Combatterà tutta la vita. Una montagna russa, un’altalena. Momenti di pace, di serenità, alternati a momenti di sconforto. Verso traguardi sempre più forti e stabili ma che non lo saranno mai come il granito.
Ho accettato di essere una di quelle anime: una di quelle che non si sono mai fermate per non perdersi ma che non hanno mai vissuto veramente ciò che desideravano. Anime che, forse più sensibili degli altri, non riescono a infilarsi in meccanismi semplici come scegliere i vestiti tutte le mattine, truccarsi.
E per quanto vogliano piegarsi all’automatismo mi alzo/mi lavo/mi vesto/vado a lavorare/torno a casa/cucino/sto con mio marito, non riescono a trovarne il senso.
«“Sei depresso perché non hai nulla da fare”. »
I “sani” ti vedono così. Anche questo è motivo di vergogna. Anche questo ti porta a stare in un letto senza avere voglia o forza per alzarti. Per chiedere aiuto. Per prendere la porta e godere di questo mondo.
“Ma guarda intorno a te, i doni che ti hanno fatto, ti hanno inventato il mare…tu dici non ho niente, ti sembra niente il sole?”
Caro Modugno, ho capito.
Cara Carlotta, ti chiamo dal parchetto sotto casa.
Non un grande traguardo per i più, enorme per la mia nuova fase di combattimento.
In bocca al lupo Roberta.